Sono troppo antisociale per tutto, figuriamoci partecipare a catene su web.
Ma stavolta mi aveva provocato un giovane e grande comunicatore scientifico (@SellaTheChemist) per cui non mi potevo tirare indietro.
Lo schema era “7 days, 7 black and white photos of your life. No humans, no explanations. Challenge someone new every day.”.
L’ho interpretato così, e ovviamente niente spiegazioni nemmeno sulle motivazioni un po’ criptiche della scelta (però lascio aperta la casella dei commenti).
Non cito i sette che ho citato io, un po’ di pràivasi, no?
Che la fotografia sia qualcosa di ibrido è quasi un truismo.
Tra arte e tecnica, tra vero e falso, tra rappresentazione e oggettività… e se fossi uno di quelli bravi mi metterei a zigzagare tra le elucubrazioni di Bloch o Barthes, Weston, McLuhan o Ritchin, così per dire.
Ma sono un fotografo programmaticamente dilettante, nel senso che, quando non mi diletto, le foto non le so fare e nemmeno mi interessano: quindi l’ibridazione a cui penso è molto più quotidiana.
Legata alla voglia di riprovare qualcosa che ho fatto o visto fare, e magari al far venire voglia di pellicola a chi non l’ha mai usata… e più passa il tempo e più sono convinto che la pellicola ci vuole; o insomma ci deve essere qualche altro oggetto fatto di materia, human-readable, non solo codici binari scritti su un supporto che solo una macchina può leggere, predestinati a scomparire presto.
In un certo senso il fotogramma su acetato, o su vetro o carta, è anch’esso un’entità ibrida: tra una scena che è effettivamente esistita, fosse pure per un nientesimo di secondo, e la rappresentazione congelata e quasi eterna che ne ho su uno schermo o un foglio stampato.
Chi è nato con le foto digitali, o ci si è buttato più o meno definitivamente, ibrida di continuo le immagini e la tecnica, e perlopiù non lo sa o non ci fa caso. Il bilanciamento automatico del bianco è già un’alterazione assurda, se vogliamo parlare di teoria del colore: anche senza usare le dozzine di filtri con cui il cellulare più grezzo può pastrugnare l’immagine, prima o dopo lo scatto, distorcendone la famosa oggettività.
(Che poi, all’oggettività della foto, ci credevano solo quei gran farlocchi dei veristi o realisti di ogni razza e colore).
Ibridazioni digitali che in un certo senso partono dal dodging and burning che da sempre si fa in camera oscura, o dal fotomontaggio che fin dagli albori costruiva una realtà fittizia, ma cui spesso manca proprio l’elemento di base dell’intenzionalità, della consapevolezza. E magari la serietà del gioco, rispetto alla banalità dello scherzo.
Ma sto divagando ancora. In realtà l’ibridazione a cui penso è
soprattutto quella tecnica, mescolare apparecchi, ottiche, pellicole per vedere l’effetto che fa.
Il gioco di riassortire e mescolare e di-vertire.
Partire dal bricolage, passare attraverso il kitsch e magari fare un passo in più.
Tutto è già stato inventato, gettato e ritrovato, quindi niente di nuovo: in migliaia lo han già fatto prima e meglio di me. Ma lo stesso si può dire della musica o della scrittura, non parliamo della moda… qui ci sono alcune foto che ho realizzato durante la mostra di ComOn 2017, a S. Pietro in Atrio di Como, il cui tema era proprio NOW IS HYBRID: due sono state pubblicate anche da TESS n. 12/2018.
Anche questo lavoro fa parte dei progetti didattici con cui cerco di insegnare un po’ di foto|chimica ai ragazzi (e non solo), loro che son rimasti così indietro da essere ancora fermi ai tempi del digitale. Anzi, avremmo dovuto lavorare un po’ di più sull’installazione comasca, con una terza di Sistema Moda /Disegno di Tessuti, ma era periodo di verifiche e non siamo riusciti.
Vedo che la materialità dell’immagine li attrae e li incuriosisce – se no, come spiegare il revival della foto istantanea, quello sì poco comprensibile anche per me? (*)
Tranne la sprocketata sul lago (da una ur-Ercona 6×9), le altre sono state ottenute con questa signora, montando il dorso a lastre b/n con Fomapan 100 (su slitta Pentacon per lo scatto 3D), oppure il dorso 120 per il colore.
Magari ne abuso un po’, ma lei già alla nascita si chiamava Sirene, entità ibrida, e lo era ulteriormente essendo un modello Wünsche passato alla ICA, che poi sarebbe stata merged nella Zeiss Ikon nel ’26…
La testatina con le colonne di luce riflesse sul lago, sulla mia pagina Twitter, era stata ripresa con la stessa macchina durante il suo giro di prova.
(*) ma prima o poi lo provo, con la Rolleicord e il dorso a lastre non mi servono nemmeno adattatori, solo due dita robuste…
Trent’anni fa luglio era stato decisamente piovoso.
Stava iniziando a piovere molto anche in Valtellina. Nel giro di pochi giorni, un’alluvione tremenda, devastazione, morti.
Un po’ di tempo dopo ero stato lassù, con pala e stivali – che ho riportato indietro – e macchina fotografica – che uno del luogo si è tenuto per ricordo.
La galleria di fotografie, che era qui virtualmente da allora, probabilmente verrà riproposta a fine estate a Lomazzo, come manifestazione collaterale al 60° del locale gruppo dell’Associazione Nazionale Alpini.
(Ah: neanche in questi ulteriori dieci anni sono più tornato in Valtellina. Magari, forse…)
Una bella tappa di SelfieChemistry – Foto|chimica alla sede lomazzese del Liceo Fausto Melotti di Cantù. Intanto perché mi fa sempre piacere passarci, sono millanta anni da quando ci insegnavo ed è già un po’ da quando ho visto chiudere la tradizione del glorioso Istituto d’Arte. Poi, perché la sfida è quella di far capire l’importanza della scienza della materia a chi non la incontra più – come era un tempo – tra le materie caratterizzanti del proprio percorso, mentre la chemofobia non si arresta.
Una quinta, abbastanza numerosa: sguardi perplessi o diffidenti di fronte all’idea che per due ore avrebbero sentito parlare di chimica. Addirittura, di cosa c’entra la chimica con la storia degli ultimi secoli, quella che magari ti chiedono all’esame. Ma, forse più che in altri momenti, vedo parecchio interesse che si risveglia. Chimica e storia accompagnati da casi concreti, dalla nascita simultanea della chimica e dell’arte – quando un ominide per la prima volta preparò consapevolmente un qualche tipo di pittura – ai materiali pittorici più prossimi alla nostra cultura, dal Medioevo (e cos’è poi, il Medioevo?) a tutte le tecniche pittoriche recenti che dovrebbero conoscere. Quelle “dalla seconda rivoluzione industriale in poi”, come direbbe un libro di testo, e pazienza se stavolta dovrò lasciare da parte Perkin e la tintura, accontentandomi di Van Gogh folle per i nuovi colori. Fino alle bombolette di acrilico… certo che nessuno di questi fanciulli ne faccia un uso poco responsabile.
E la chimica della contemporaneità, quella che permette di generare, riprodurre, fissare una immagine, su pellicola o in digitale.
Con una parte sperimentale che, una volta di più, fa drizzare le antenne quando entrano in gioco le vecchie signore: la mia Canon F1 eponima, qualche cucciolo mansueto come la Canon Demi o aggressivo come una Perfekta in total black. Cromo, bakelite, acetato di cellulosa, poliestere… e di colpo la ressa quando si tratta di guardare nel vetro dalla Avus, per vedere il mondo capovolto in 9×12. Non abbiamo tempo per un set completo – anzi, grazie alla paziente collega che ci ha consentito di “sforare” con i tempi! – ma se vedere uscire un negativo dalla tank è sempre magico per me, figurati per chi lo vede la prima volta, e magari deciderà che sarà solo la prima di tante.
La cosa bizzarra è che non abbiamo fatto nemmeno un selfie, anzi nessuno si è messo a documentare la lezione, e non è che ci mancasse l’hardware: ma abbiamo una foto del cortile di fronte, e in fondo anche Niepce aveva iniziato così. La comprimo un po’ o la vuoi a 600 megapixi? 😉
Tre idee riassuntive, forse:
– la chimica e l’arte sono due aspetti essenziali, complementari e spesso coincidenti del nostro essere umani
– il mondo è troppo più vasto di quel che si vede a scuola, ma la scuola può essere capace di allargare i tuoi orizzonti
– e già che ci siamo: là fuori ci sono tantissime fotocamere splendidamente funzionanti, che non deperiscono in pochi anni come le costose digitali, che magari ti aspettano nell’armadio del nonno prima ancora di cercarle in rete. Che hanno visto storie grandi e piccole e che meritano di vivere ancora, per fotografare in modo creativo, moderno, economico.
Come direbbe Ollivander, spesso è la macchina che sceglie il fotografo: forza, ti sta cercando. Se è ormai chiaro che il 2017 è l’anno in cui la pellicola ritornò alla grande, tu che fai l’artista non sarai mica così indietro da usare ancora il digitale?
Ho iniziato a fotografare abbastanza assiduamente verso il 1980. Praticamente tutte le mie immagini da fine anni ’70 sono archiviate in ordine: qualcuno dice che le capacità di tenere in ordine qualcosa le ho esaurite lì.
Erano i tempi di notti intere in camera oscura con le bacinelle, la luce giallo-verde, che diventava rossa quando facevo le lith col bagno alla formaldeide. L’ingranditore era un polacco economico e robusto, con brillanti ottiche bavaresi.
C’erano i fotoclub, le mostre, le discussioni tra canonisti, nikonisti o pentaxiani…
Quando ero studente e buttavo via un mucchio di tempo, la procedura era: sviluppi il negativo, fai i provini a contatto, li incolli su un cartoncino leggero con tutti i dati, e archivi insieme provino e negativo. Le dia, nei raccoglitori a carrello.
Stampare degli ingrandimenti è un altro discorso: ci vuole più tempo, non ti puoi accontentare di un risultato approssimativo, e il costo diventa importante.
Tanto, poi, ci possiamo sempre pensare.
Poi.
Il bianco e nero ed il Kodachrome sono eterni, no?
Poi.
Una volta tornato da militare, quasi chiuso con l’attività politica, era arrivato il momento in cui gli impegni si facevano più seri. Il tempo pieno in università per la tesi e, successivamente, per il lavoro di ricerca; una biondina con cui stava nascendo qualcosa di speciale, e che oltretutto non abitava proprio di fronte alla porta di casa.
Il lavoro in azienda, per un buon periodo facendo ogni giorno andata e ritorno dalla Montedison di Novara. Chimica dei reperti antichi: e i fogli di negativi andavano accumulandosi in archeologica stratigrafia, spesso non trovavo nemmeno il tempo di fare il provino: ci penserò, prima o poi le guarderò.
Finalmente sposato, col lavoro che mi assorbiva una dozzina di ore al giorno, per un certo periodo avevo quasi smesso di fotografare, e anche i fogli di negativi finivano ammucchiati in disordine, fino a quel ’98 in cui è nata Alice.
L’anno in cui ho fotografato di meno in assoluto. Passare all’insegnamento ed alla professione mi aveva dato orari più flessibili, ma non certo più brevi ed in comprenso più caotici.
L’ingranditore ha pian piano smesso di lavorare e, da un certo giorno, mi sono limitato a pulirgli i vetri ogni tanto. Solo le tank non sono mai andate in congedo.
Nel frattempo il PC con Win 3.1 aveva lasciato spazio ad uno con Win 98 e, con quel che avevo risparmiato in pellicola, avevo comprato il primo scanner: un Nikon 35 mm su uscita SCSI.
Sia pur lentamente mi permetteva di star dietro non solo ai rullini nuovi ma anche al riordino di un po’ di materiale vecchio.
Fatto molto importante: mi permetteva per la prima volta di gestire in proprio anche negativi a colori e diapositive. L’ho sfruttato senza pietà finché, esausto, mi ha chiesto di riposarsi, e così sono passato all’Epson V700, che ancora oggi sta ronzando sornione qui di fianco.
Con un hw molto più elastico ed un sw che prima non immaginavo, potevo scandire in file più sostanziosi non solo il 35 mm ma anche quel poco di 120 che avevo fatto in precedenza, e magari formati più strani e bizzarri, incluso gli antichi 126 della mia prima Instamatic (che funziona ancora, ovviamente).
Pian piano ho ricominciato a pensarmi come fotografo, fino ad anni vicini in cui ho iniziato anche a darmi da fare con un po’ di ferrivecchi che vanno oltre il 6×6.
E nonostante abbia kemia.it, parecchi scatti finiscono pigramente su Twitter o altrove, non qui.
Il senso di questo discorso è che conosco piuttosto bene il mio fotografare dell’ultima dozzina di anni, mentre di quello precedente ho una conoscenza un po’ episodica, magari concentrata molto bene solo su alcuni momenti (come quelli che mi hanno convinto a raccogliere in quelle pochissime mostre o presentazioni per qualche pubblico).
Insomma: ho scattato svariate migliaia di fotografie che letteralmente non ho mai visto, e almeno altrettante che ho visto solo di sfuggita, comprese quelle di cui avevo solo sbirciato un approssimativo provino quando si trattava di sceglierle per il giornale… e le ultime in coda, per finire il rullino, erano a volte piuttosto intriganti.
Ogni tanto, visto che per fortuna di cose da fare ne ho diverse altre, apro a caso un raccoglitore e scandisco qualche pacchetto di fogli.
La logica SlowPhoto impone di lasciar sempre passare qualche tempo tra lo scatto e l’osservazione.
Settimane, mesi… decenni.
Molte di quelle di Baliverna 1983, per trent’anni, non avevo saputo che ci fossero, ed era stato il mio primo e più esteso reportage . Per non parlare di quelle del Muro di Berlino.
Messaggeri che ti inseguono dal passato, mi bisbiglia Buzzati, e mi consiglia di pensare a come gestire meglio il tempo che resta e non quello che è stato.
Senza pensare a tutte quelle che mi dice Borges.
Ma mi incuriosisce sapere che c’era un fotografo che si chiamava come me, il cui lavoro è rimasto totalmente sconosciuto pure a lui stesso, e che ho il privilegio di poter esplorare in esclusiva.
A volte c’è persino qualcosa che mi piace.
E poi, mi ha lasciato tanto di quell’arretrato che mi ci vorranno anni per arrivare in fondo…
Le sei immagini sono inedite. Due lo erano anche per me.
Stavo andando a spasso per Milano con un giovane amico, lui al collo una Leica M6, io la mia Canon F1 – l’antica compagna, da cui ho scelto il nickname su Twitter.
Troviamo una persona che di macchine se ne intende molto più di me. La guarda e mi fa i complimenti “per quanto è sverniciata. Non perchè ha fatto centomila scatti, ma perchè si vede che per quarant’anni siete invecchiati insieme”.
Beh, meno di trenta, penso, e già era un po’ vissuta quando l’ho presa. Ma capisco che parla seriamente e intuisco il senso delle sue parole.
Il signore, non lo avevo detto, è giapponese.
Non so quasi nulla di cultura ed estetica giapponese, ma mi viene in mente l’idea del wabi-sabi, l’ammirazione per le cose che mostrano delle imperfezioni ed il passaggio del tempo, come credo di leggere in questo saggio di Tadao Ando.
È probabilmente quello il primo motivo che mi fa continuare a preferire le foto fatte con qualche vecchia signora – come le abbiamo chiamate coi ragazzi del Setificio, rispetto alle digitali. E, tra l’altro, aver dovuto trovare il sistema di comunicare ai sedicenni esperienze che per me sono – senza enfasi – una vita, mi ha permesso in questi mesi di capire meglio un atteggiamento che oggi quel signore ha sintetizzato in poche parole (en passant: mai smettere di imparare dai propri studenti).
Non è per qualche moda alternativa, di giovanotti che magari ora ostentano lunghe barbe fulve – come quella che avevo quando iniziavo ad usare una reflex. Che sembrano cercare fotocamere a pellicola fatte di plastica colorata, con cui fare foto percettivamente brutte, quando io invece cerco vetri e metalli consumati con cui fare foto belle.
Poco prima avevamo visto insieme l’ultimo modello di cellulare, con doppia altisonante fotocamera. Uno spettacolo. Foto perfette. E persino meno caro di quel che credevo.
Eppure non penso di comprarlo, almeno a breve, e comunque non per fare le mie foto. Negli ultimi mesi ho invece comprato molte fotocamere vecchie: tutte vecchie più di me; qualcuna, più dei miei genitori. Scomode da usare, un po’ ridicole da vedere, l’essenza di quell’hashtag slowphoto che uso spesso: e non soltanto perché devi attendere il tempo sospeso dello sviluppo, della scansione, della stampa.
Le quali, a fianco di evocativi nomi tedeschi e delle magagne lasciate dal tempo, hanno tra l’altro in comune un prezzo ridicolmente irrisorio, incommensurabile con le loro prestazioni.
E allora mi viene in mente qualche altro vago ricordo di cultura giapponese – ritrovo una frase dell’antico monaco Kenko Yoshida:
i tuoi beni appaiano vecchi, non troppo elaborati; devono costare poco, ma essere di grande qualità
Ne avremmo anche noi, di riferimenti culturali che vanno da quelle parti lì. Direi che cercando tra Qohelet ed Epicuro, san Benedetto e Leopardi (per dire i primi che mi vengono in mente), idee simili se ne trovano.
Non ti dicono che devi amare il brutto: tutt’altro. Proprio il contrario, direi.
Devi amare, cercare, creare la bellezza nonostante l’apparenza e l’ostentazione.
Senza dimenticare che uno scatto digitale richiede cure mostruose per sopravvivere anche solo qualche lustro, mentre la pellicola è fatta per sopravvivere decenni e magari secoli… certo, forse con qualche segno del tempo, con qualche graffio e ombreggiatura.
Stamattina avevamo visitato anche un laboratorio di restauro.
Della patina, di Ruskin e di quelle cose lì ne parliamo un’altra volta. Ora spolvero la F1.
Digressione. La foto della testata, per quanto annegata negli effetti speciali, mi pareva abbastanza leggibile. Nessuno finora ha riconosciuto il soggetto. Mi sa che la cambio.
Ricaricato dalla vecchia pagina di kemia.it. Riflessioni sulle dia. Oggi, di quelle pellicole, se ne trova qualcuna in più. Forse abbiamo toccato il fondo e stiamo già per risalire, come era successo per il vinile.
25.3.2016
E’ quasi un anno dalla fine del Kodachrome. Ho proseguito ad usare le Fuji Sensia per poi veder finire anche quelle. Anche Kodak sta lasciando svanire il settore delle dia, per cui restano le top Fuji. E’ vero che un rullino sviluppato di Velvia costa solo un 25% più di un Sensia e che il risultato è quasi-Kodachrome, però ti girano, ah come ti girano. Sopra i 200 ISO si deve andare solo in negativo colore? In compenso, per la prima volta, ho comprato della TRI-X: da ridere ma il b/n più venduto della storia non l’ho mai provato. Dopo l’Islanda sto ritornando alle pellicole a grana tradizionale, da fine anni 80 avevo usato al 90% le T-Grain.
Non sono stato tra i primi a comprare un telefonino che fa le foto. il primo l’avevo comprato una dozzina d’anni fa, ma chiamare foto delle immagini alla risoluzione di mezzo VGA era difficile. Poi nel 2008, per un problema da risolvere urgentemente, avevo comprato di seconda mano un Sony K800i. Il primo smartphone, in un certo senso; quello che usava James Bond come arma segreta. La roba elettronica invecchia in modo patetico. Comunque l’ho fatto lavorare cinque anni e, a cambiargli la batteria, funzionerebbe ancora. Dal punto di vista della foto d’azione la sua comodità e rapidità di fuoco erano incomparabili rispetto a quelli di oggi, anche se lo sportellino era scomodo da ogni altro punto di vista.
25.3.2016
Come si cambia. Il sogno di una vita era quello di avere in tasca una macchina fotografica in ogni momento. Il telefonino che avevo preso nel 2004 aveva una microfotocamera che faceva delle discrete fototessere a risoluzione zerovirgola, ma ovviamente non era quel che intendevo. Quando ha deciso di mettersi a riposo, ho optato per uno con fotocamera da 3.2 e memoria illimitata. Adesso HO una fotocamera sempre con me, anche se non è certo una delle solite. Operativa nel tempo che serve per estrarla dalla tasca facendo scorrere la protezione dell’obiettivo. Nei primi quattro giorni, cercando di non esagerare, sono arrivato a quasi 400 scatti. Avrò bisogno di qualche tempo per adattarmi a questa nuova dimensione.
Sono Sergio Palazzi, chimico, insegnante, fotografo ed alcune altre cose. Questo, dal 2006, è il mio sito.