A volte in rete si fa, a volte no, io sono pigro e anche quando lo faccio poi non lo riordino. Ma per quest’anno sì.
Su Twitter ho usato i primi dodici giorni dell’anno per ricordare i dodici mesi del 2022 con una foto significativa. Per alcuni mesi ho fatto fatica a trovarne perchè avevo scattato veramente poco, e magari solo foto d’occasione contestualizzate (manifestazioni, conferenze). Per altri mesi avevo l’imbarazzo della scelta. Alla fine dell’anno il conteggio totale dei rullini, o delle poche lastre piane, è stato abbastanza cospicuo, ma solo grazie ad alcuni momenti particolari in cui ho potuto lasciarmi andare.
Settembre: Milano Canon FTb, 80-200/4FD-L, HP5 EI 800
Ottobre: Milano (OctobErwitt?) Werra 5, Flektogon 35/2.8, Paul&Reinhold EI 1000
Novembre: Como Kiyv 4, Jupiter 12 – 35/2.8, HP5 EI 1600
Dicembre: Como Canon FTb, 24/2FD, FP4 EI 500
Extra bonus: shooting mountains on FP4 with Canon FTb
(taken by Sasha: Canon F1n, 50/1.4FD, looong expired Velvia 50)
Mentre raccoglievo le immagini mi sono accorto che, quanto a pellicola, diverse sono fatte su materiale che ho usato raramente, se non addirittura per la prima volta. Per le fotocamere, invece, tolta la FTb che è parte di me, c’è una netta preponderanza di Est Europa.
E non solo Jena: penso che una volta mi sarei vergognato ad andare in giro con una macchina addirittura “Made in CCCP”.
Ma quest’anno ho iniziato davvero ad amare anche dal punto di vista tecnico, e ad essere orgoglioso di portare a spasso con un nastrino🇺🇦, le versioni Arsenal delle vecchie Contax: che preferisco traslitterare in Kiyv. Slava Ukraïni!
Non ho mai fatto quei thread chilometrici e preventivati che alcuni fanno su Twitter. Stasera mi sono accorto che ne stavo facendo uno, e così, per quel che vale, me lo ricopio qui per pensarci su.
Del tutto banale pensare che persino in queste pagine mie in qualche dozzina di mesi ho aggiunto ben poco di concluso (contr: sconclusionato).
Ho riaperto dopo chissà quanto il mio “Analisi chimica per l’arte e il restauro”, che ho scritto nel ’96. Ne ho letto una mezza pagina iniziale insieme ai ragazzi cui inizio a spiegare l’analisi, non per esibire qualcosa (cosa?) ma per vedere il confronto tra il linguaggio
che a me sembrava abbastanza semplice per un pubblico di adulti un quarto di secolo fa, e le loro capacità di comprensione verbale, prima di entrare in quelle concettuali. Un esercizio che faccio spesso con cose scritte da me per rendermi conto del livello di separazione
tra due modi di esprimersi. Quello che a me sembra, o sembrava anni fa, sufficientemente semplice e possibilmente stimolante, non disadorno, per persone con una accettabile cultura di base ma in campi diversi dal mio, e quello con cui mi devo confrontare con il gruppo
di persone cui devo rivolgermi hic et nunc, e che spesso sono diverse non anno per anno ma anche in due classi parallele. Il che è quasi indispensabile per spiegare in modo efficace. Non faccio la semplice retorica dell'”ogni anno sono peggio”, perchè non è vero,
se il livello medio generale ormai è inconcepibilmente basso rispetto a quel che la scuola pubblica dovrebbe garantire e pretendere, questa media è fatta da valori statisticamente dispersi ma che comprendono anche soggetti più che in grado di stare al gioco che la scuola
dovrebbe proporre e giocare insieme a loro. La riflessione più seria è personale, sulla mia lingua, sulla mia capacità di insegnante (comunicatore? divulgatore?) e su come si è evoluta o involuta da quando scrivevo libri. Nei 23 anni da quando ho chiuso l’ultimo ho scritto
in rete, su giornali o chissà dove abbastanza parole per riempire due dozzine di libri, ma sento troppo la difficoltà di scrivere in modo ordinato e concluso, non frammentario, di mettere una parola fine dove so che in realtà non finisce niente, e qualcosa domattina
sarà già superato (visto che perlopiù scrivo di cose tecnico-scientifiche).
Ho nella testa, e già aperti sui pc, almeno tre libri, da anni. Nella testa sono quasi completi, si tratta solo di trovare l’introvabile voglia di dire “si comincia” e di puntare un obiettivo
da raggiungere per dire “basta, finito”. Una volta mi ponevo un limite di tempo, diciamo un paio di mesi, e ce la facevo anche lavorando tutto il giorno in azienda. Ma scrivevo per lettori che in parte conoscevo e di cui sapevo le capacità di comprensione, appunto. È stare
nella scuola, che da un lato mi riempe troppo di dubbi, dall’altro mi fa pensare che passeranno settimane o mesi tra quando ho pensato delle parole e quando verranno lette da qualcuno, che non è più chi ho in mente hic et nunc. Però mi rendo conto che ormai non è più
il tempo di aspettare, perchè passa il mio tempo individuale, ma passa anche il tempo del mondo intorno, e se in questi anni frenetici e convulsi, aperti a un futuro forse migliore, ci dovessero essere quei famosi 25, ho (- il dovere? il bisogno? -) di scrivere.
Se solo trovassi l’ordine mentale, la disciplina per rimettermi a farlo, e avere alla fine quel piacere di chiuderlo. Per poi metterlo magari in rete gratuitamente, come avevo fatto con quello del ’98, tanto i diritti ti pagano poco più che il fastidio di confrontarti
con burocrazie e procedure dell’editore.
Se avessi il coraggio di dire che oso chiudere in una struttura di 150-200 pagine le idee che mi girano nella testa espandendosi come vortici frattali, perchè quel che ne posso dire sensatamente è in fondo così scarso e limitato.
Versione adattata da quella pubblicata qui sul sito 35mmc.com
In un precedente post, ripreso qui su queste pagine, non avevo indicato che in realtà la mia prima macchina fotografica personale è la Kodak Instamatic 155x che papà mi aveva portato durante una colonia estiva nel 1972. Dopo sei anni di foto a scuola e/o in vacanza, avevo debuttato nel mondo Canon FD, ma a volte insistevo con il formato 126, quando i rullini erano ancora disponibili, così naif nel loro grazioso formato quadrato. Saggiamente, avevo cercato di salvare un paio di cartucce per eventualmente ricaricarle, ma poi non ho mai deciso di passare ai fatti, e la 155x è ancora là che aspetta su uno scaffale.
Lo scorso aprile, alla fine di una breve ricaduta di G.A.S., ho visto una Instamatic 500 praticamente perfetta, con un limpido Schneider Xenar 38/2.8 collassabile montato Compur, un affidabile esposimetro al selenio, e persino una graziosa custodia con rinforzi cromati. Non ho potuto resistere e ho dovuto investire 15€ in un massiccio e quasi inutilizzabile gioiello nato nel 1965.
Original case for Kodak Instamatic 500
Così ho speso altri spiccioli per un 126 sigillato, un llfocolor HR 100 scaduto nel 1987 e probabilmente mal conservato. Anziché semplicemente aprire il guscio sotto una comoda luce, buttando via la pellicola, ho deciso di usarla a 25 ISO il giorno in cui è passato di qui il Giro d’Italia.
Dopodiché, l’ho sviluppata in C41 (rischiando le mie dita nel buio, con un fidato coltellino). È uscito un nero verdastro con qualche ombra colorata appena percettibile. Un po’ spiaciuto, avendo altro da fare, ho piantato lì sia la pellicola sia l’esoscheletro.
Una volta in vacanza, ho provato a puntare sull’esperienza della ricarica. Ho avvolto una striscia di FP4+ per usarla a 200. La 500 ha qualche irregolare problema nell’avanzamento (ho un paio di idee su come sistemarlo), ma mostra dei risultati veramente buoni, anche sui fotogrammi “mangiati”. Quest’obiettivo croccante merita i colori vivaci di una pellicola fresca.
I negativi parzialmente sbucherellati non mi spiacciono, e spero che presto le Sorelle Quadrate possano ritornare in circolazione.
Overlapped on both sides, but metering and lens are very good
Properly spaced yawning InstaCat
E il vecchio negativo? ho chiesto un miracolo, ostentando le strisce allo Spirito Silverfastico del Potente V700, e il miracolo è arrivato. Butterato, sporco e stinto – ma leggibile!
Many people could be looking for these kinds of distortions?
Tra i regali di Natale ne ho trovato uno che mi ha sorpreso e un po’ spiazzato, il recente volume della Contrasto “Io sono il fotografo” che racconta in tutti i dettagli la genesi di Blow Up di Antonioni, partendo dal racconto di Cortazar cui era molto vagamente ispirato. E che, al di là della trama esile del film, è un autentico trattato sul ruolo sociale della fotografia nel momento in cui nasceva il mondo visivo in cui siamo ancora immersi, prima che gli scatti spolpati e parossistici dei cellulari costruissero un nuovo modo di confrontarsi con la realtà attraverso le immagini, che forse capiremo meglio fra un po’ di tempo.
L’ho letto di un fiato, ritornando su diversi particolari, pur non avendo a portata di mano il film con cui andarmi a confrontare per una lettura più analitica. Davvero un volume notevole – complimenti a chi lo ha concepito e compilato – che mi pare spieghi meglio di tanti altri cosa sia stata la fotografia, nel bene e nel male, nel formare la percezione della realtà di noi nati e cresciuti lungo un ben preciso arco di decenni.
Nel momento in cui la macchina fotografica smetteva di essere elitaria e professionale ma costruiva una parte della realtà comune un po’ per tutti, assai più di quanto lo fosse ancora nei trent’anni in cui diventava qualcosa di “democratico” e non professionale – quelli centrati a cavallo della seconda guerra mondiale.
Materiali, tecniche e sensibilità che davano ad ognuno la possibilità di essere fotografo delle vacanze o cronista dei propri tempi, anche al di fuori del più impegnato ambito del reportage da teatri drammatici. Per dire, la fotografia che su Epoca riempiva le pagine tutt’intorno a quelle che pubblicavano i servizi più consapevoli e “deliberati”. Quella che si sarebbe evoluta (o involuta?) verso le Polaroid e le Instamatic.
Dove restavano un po’ irrisolte le diverse funzioni dell’immagine fotografica, anche perché lo stesso professionista poteva muoversi su terreni sensibilmente diversi, da quello di documentazione e di denuncia a quello più rassicurante, commerciale, glamour, in cui impugnare una fotocamera ti dava un’aura invidiabile anche per l’appeal del mondo a cui potevi sognare di affacciarti (è tutt’altro che un caso che la Valentina di Crepax sia una fotografa).
Anche Thomas, il personaggio di David Hemmings, è un giovane rampante della fotografia di moda nella Londra degli anni ruggenti, ma dedica dello spazio al reportage sociale. Antonioni si appoggia fortemente nientemeno che su Don McCullin: è proprio lui che materialmente scatta le riprese un po’ sgranate intorno a cui è costruito il film e sue le foto suburbane in esposizione, anche se resta in sospeso – ed oggi suona così datato – il discorso moraleggiante, tenendo presente quanto sono diversi i mondi cui cerca di riferirsi.
A dirla tutta, Antonioni come narratore di storie non mi entusiasma, non mi prende il milieu ideologico di cui era uno dei fari, che poi si sarebbe chiamato radical chic e che già era irriso dal primissimo Guccini.
Ma come fotografo, ragazzi! Un occhio favoloso, la capacità di scegliere collaboratori di prim’ordine, inquadrature e tagli sempre esattamente calcolati. Si vedeva che si era formato negli anni del massimo splendore di quel bianco e nero che ancora resisteva all’attacco del colore.
Nel volume c’è anche un’intervista commentata a Brian Duffy, Terence Donovan e David Bailey, del ’64, che servì ad Antonioni come ispirazione per un minuzioso studio di quali fossero i pensieri, le abitudini e i vizi dei protagonisti della Swinging London. I tre giovani leoni che avrebbero costruito l’immagine della moda ma anche della musica inglese. Circa coetanei di McCullin, destinato a sentieri terribili; poco più giovani di Newton, Penn ed Avedon, che invidiavano e volevano superare; poco più vecchi di Leibovitz o Mapplethorpe che avrebbero inventato linguaggi ulteriormente innovativi.
La cosa che però mi ha colpito è che a regalarmi questo libro sia stata proprio Anna.
Lei è infatti della generazione di quei fotografi – ha esattamente l’età di Lotti ed Hockney, tanto per dire. Leggendolo non potevo non pensare che anche lei, parallelamente, è cresciuta in quell’epoca in cui ogni giovane di un contesto urbano occidentale iniziava a trovar normale l’uso della fotografia come strumento espressivo per documentare la propria vita, e che pure lei l’ha sempre praticata un po’ di sponda, senza tirarsela con pose da artista.
Anna ha avuto un marito appassionato di fotografia, nitido e preciso anche se un po’ calligrafico, mentre lei dietro l’obiettivo è sempre stata un po’ più sghemba e fantasiosa; se vi si fosse dedicata con regolarità e metodo avrebbe avuto uno sguardo molto interessante. Certo, per una ragazza italiana tra i ’50 e i ’60, che la fotografia potesse essere più che un hobby era piuttosto improbabile.
Restava una cosa domestica, che riempiva prima gli album rilegati, con immagini a volte distaccate, a volte preziose per documentare un’epoca passata; poi, i raccoglitori più semplici stipati di foto delle vacanze.
Eppure, anche da quelle sue immagini saltano fuori delle inquadrature notevoli, che (prescindendo del tutto dalle sovrastrutture critiche alla base di questo libro) mostrano consapevolezza dello scatto.
E mi spiace che da quando si è scassata la sua Nikon compatta adesso lei fotografi soprattutto col cellulare.
Il quale oltretutto ha un angolo di visuale troppo largo rispetto a quelli cui era abituata, un taglio che semmai si presta di più alle immagini da globe-trotter che raccoglie sua figlia.
La quale fa parte di quella generazione degli anni ’60 che dai genitori ha imparato a guardare attraverso un obiettivo.
Qualcuno di loro ha finito per restarne intossicato, come me.
I bimbi crescono, la mamme imbiancano (anche la barba del prof) ma il Bicchier d’acqua va avanti imperterrito, grazie a Federchimica che lo ha voluto tanti anni fa e continua a volerlo per l’Orientagiovani in Assolombarda.
Quest’anno abbiamo avuto la fortuna di ricevere subito il montaggio video ad alta risoluzione (grazie!) e così ne ricavo alcune foto. Col solito limite che i minori non possono essere riconoscibili etc. etc., e quindi non posso mostrare una delle mie migliori protagoniste di sempre e la più giovane in assoluto, la sorprendente Elisa di 1M2 .
La traccia si mantiene come sempre simile a sé stessa ma continuamente adeguata e modificata (dicono che succeda così, agli organismi viventi).
Stavolta, in previsione di 2019IYPT, abbiamo spostato gli accenti sula tavola periodica, ma anche sul 150° del Setificio e sulle polemiche contro la plastica.
Inserisco pochi scatti così per gradire:
Alessandro spiega i danni ai monumenti delle piogge acide, ma poi si impappina sull’Eyjafjallajökull.
L’immancabile lancio delle caramelle (e chissà come mi era venuta l’idea, la prima volta)
In omaggio alle diverse scuole medie, la nostra tavola periodica aggiornata alle ultime indicazioni IUPAC, disegnata da noi e stampata nei nostri laboratori, in transfer a sublimazione su PET. L’avremmo data a tutte le centinaia di ragazzi intervenuti, ma diventava un problema stamparle a mano una ad una…
Ovviamente non eravamo soli sul palco: dopo di noi, sono arrivati gli amici del Molinari di Milano, come sempre con uno show impostato su esperimenti spettacolari.
Ma questo lo racconteremo un’altra volta.
Per le foto ringrazio il servizio tecnico di Assolombarda
The Periodic Table as The Map of the Universe… but also resembling a school timetable.
An idea that some very young students suggested me 15 years ago and that became a website. We had the chance to present this project at the “Scienza under 18” exhibition at the Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia, Milan, at the beginning of a long-lasting connection with Federchimica, and then at the two-days international conference “Scienza ed Informazione” in Como, Villa Gallia.
The Chimico Ambientale course at Jean Monnet Institute
In 2003 I was teaching at the Istituto Jean Monnet of Mariano Comense (between Como and Milan). One of the newest high schools in Lombardy, and one of the most innovative in Italy because of three different “experimental” courses.
I was involved on the chemical one, a “Istituto Tecnico Industriale” course about “Environmental Chemistry and Technology“. One of the very few, and probably the best one in Italy on this topics, as I heard from many colleagues.
Our students not only had sure and goob jobs if they were stopping just after the Diploma, but the large number which were going to University had often outstanding results – just from the first day: if they tried the admission exams at Milan Politecnico, they always gained a very high rank, outclassing students coming from the most renowned Licei.
(btw: the reform law, some years ago, simply cancelled Chimico Ambientale from any Italian High School).
The fuzzy idea
As Chemistry is the Scienza della Materia, in our table it became the Scienza delle Materie (Science of Subjects).
Students were asked to think that the element symbols were not about chemistry, but the subjects that they were studying at school – or that they were interested in. So, each entry linked in the table had this structure:
1: the alternative meaning for the symbol
2: its connections with chemistry and our school world
3: something about the real element
4: when available, links to the chapters of Primo Levi’s masterpiece, Il Sistema Periodico.
Disclaimer: we (I) had no experience at all about HTML structures and the Web was still a wild land, so the actual structure and graphic form where rather horrible.
After a first draft, mostly worked out with boys & girls 14-16 years old, we asked to others, also from different schools, to improve it with their suggestions.
The “elements” linked in the table (at final update) where the following, listed with the metaphorical interpretation and, in case, with a quote from Levi’s book. Sodium is not a chapter, but of course the Birkenau plant produced BuNa and we made a further reference.
Z
symbol
your opinion?
or instead?
Levi’s quote
1
H
Entalpia
Idrogeno
X
2
He
Sole
Elio
–
3
Li
Libertà
Litio
–
6
C
–
Carbonio
X
7
N
–
Azoto
X
8
O
Organica
Ossigeno
–
9
F
Fisica
Fluoro
–
11
Na
Natta (Giulio)
Sodio
*
13
Al
Alchimia
Alluminio
–
14
Si
S.I.
Silicio
–
15
P
Philosophia
Fosforo
X
16
S
Storia
Zolfo
X
17
Cl
“17”
Cloro
–
18
Ar
Arte
Argon
19
K
–
Potassio
X
20
Ca
Sport
Calcio
–
22
Ti
–
Titanio
X
23
V
Volta
Vanadio
X
24
Cr
Colore
Cromo
X
26
Fe
Ferro
Ferro
X
27
Co
Conferenze
Cobalto
–
28
Ni
–
Nickel
X
30
Zn
–
Zinco
X
31
Ga
Galileo
Gallio
–
32
Ge
Germania
Germanio
–
33
As
–
Arsenico
X
35
Br
Bretagna (Gran)
Bromo
–
36
Kr
Fumetti
Cripto
X
37
Rb
Robotica
Rubidio
–
38
Sr
Sciocchezze
Stronzio
–
39
Y
Matematica
Yttrio
–
41
Nb
Coltan
Niobio
–
42
Mo
Monnet (Jean)
Molibdeno
–
43
Tc
Tecnologia
Tecnezio
–
47
Ag
Fotografia
Argento
X
48
Cd
CD
Cadmio
–
49
In
Informatica
Indio
–
50
Sn
–
Stagno
X
52
Te
Terra (scienze della)
Tellurio
–
53
I
Italiano
Iodio
–
55
Cs
CnS
Cesio
–
57
La
(…?)
Lantanio
–
58
Ce
–
Cerio
X
59
Pr
Prova-prova-prova
Praseodimio
–
61
Pm
Promessi (sposi)
Promezio
–
63
Eu
Euro
Europio
–
68
Er
Erba
Erbio
–
70
Yb
Geografia
Ytterbio
–
71
Lu
Lucrezio
Lutezio
–
74
W
Zio ->
Tungsteno
–
75
Re
Religione
Renio
–
79
Au
Economia
Oro
X
80
Hg
–
Mercurio
X
82
Pb
–
Piombo
X
83
Bi
Biologia
Bismuto
–
85
At
Attenzione!
Astato
–
87
Fr
Francese
Francio
–
89
Ac
Analisi Chimica
Attinio
–
92
U
Università
Uranio
X
95
Am
Ambiente
Americio
–
98
Cf
Chimica Fisica
Californio
–
100
Fm
FM
Fermio
–
101
Md
Mendeleev
Mendelevio
–
102
No
Nobel
Nobelio
–
106
Sg
Stages
Seaborgio
–
Some years after, the school website was renewed, then I left Jean Monnet for the Setificio in Como, and this table disappeared, also from more recent versions of kemia.it where it was mirrored.
But I feel good to show it once again.
With the kind help of my daughter Alice, who attended Jean Monnet many years after.
As the headmaster was at that time a really challenging friend,
prof. Scognamiglio, I’m also adding: Thank you again, Tommaso.
Da quando esiste il nuovo indirizzo Sistema Moda – Tessile, abbigliamento e moda, vi ho sempre insegnato Chimica, al Setificio di Como, così come in precedenza la insegnavo sull’estinto corso di Tessitura (la prima volta, occasionalmente, nel 1988. Sigh).
Tre anni fa, in vista degli esami di stato, avevo raccolto in un volumetto pdf una serie di spiegazioni e discussioni degli esercizi di verifica svolti in classe. Un eserciziario, come si usava tanto tempo fa, e forse potrebbe essere il caso di riprendere se davvero cerchiamo le competenze e non solo il nozionismo.
Da quando ormai tutti gli studenti hanno dimestichezza col web (o almeno non sono più credibili se spergiurano il contrario) avevo infatti iniziato a pubblicare in modo un po’ disparato alcune correzioni; l’idea di riunirle era venuta ad un paio di studenti e ad un collega, in vista degli esami di allora. Anche se su questo sito non ci sono cookie né contatori, per altre vie ho avuto indicazioni del fatto che è stato visto non solo dai nostri bigatt comaschi ma anche da colleghi e docenti sparsi in molti posti.
Nel frattempo il materiale è molto cresciuto, e adesso ho pubblicato la seconda edizione, che è più che raddoppiata. 116 pagine. La copertina è rimasta ad imitazione dei volumetti per autodidatti dell’800, con una vaga ironia (?) sul fatto che certi libri e metodi didattici, che mi capita di incontrare, avrebbero un bel vantaggio se fossero aggiornati e pertinenti almeno come quei libretti là…
Diciamolo, oltre la copertina è un caos inguardabile, perché è semplicemente un copiaincolla di materiali sparsi lungo quasi un decennio e per almeno 30 classi diverse. Ma non ho ancora trovato un volontario che me lo sistemi in cambio di un 10 …
Nel 2015 era uscito il 14 giugno, maturità dell’anno, 75° di Francesco Guccini: la dedica è rimasta a Lui.
In compenso quella che si sta per svolgere potrebbe essere l’ultima terza prova scritta. Meno male, perché vent’anni fa era un’idea bellissima, ma il magma viscoso e marcescente del sistema scolastico l’aveva fatta diventare tutto il contrario di quel che doveva essere.
Qui quel che ho scritto nel volumetto di cui sopra, presentando le ultime due “simulazioni”:
Anche questi due testi usano una forma di “tipologia B” che io personalmente non ho mai condiviso ma che gli studenti, il più delle volte, hanno evidentemente accettato.
Mi sorprende, perché in tutti i casi in cui, per tanti anni, gli è stata offerta la possibilità di confrontare metodi alternativi, questa era regolarmente la “tipologia” che portava a risultati più insoddisfacenti: ma chi sono io per trarre le logiche conclusioni?
Ad ogni buon conto, la terza prova d’esame, interdisciplinare e descrittiva del percorso della singola classe, come era stata originariamente progettata vent’anni fa, era una novità rivoluzionaria nel senso della “scuola dell’autonomia e delle competenze” e dava senso all’esame di stato come veniva allora ridisegnato.
Fin da subito era stata invece snaturata con la formuletta delle “tipologie” e delle domande monodisciplinari, segno che certi meccanismi del nostro sistema scolastico sanno creare degli anticorpi che respingono qualsiasi tentativo di miglioramento. Quest’idea brillante si era così ridotta a quello che qualche giornalista povero di spirito aveva ribattezzato “quizzone”, termine che ho sempre odiato.
Il fatto che – salvo ulteriori variazioni – dall’a.s. 2018/19 essa verrà abolita, è triste per chi ci aveva sperato, ma almeno ci libera da un peso inutile.
(e c’è anche una chiara indicazione del posto che attende chi ha inventato termini come “quizzone” e “tipologgia” … pronunciato così come m’ha imparatomio cuggino).
p.s.: al più presto faccio il mirror del pdf anche qui, visto che mi sembra meglio indicizzato
Da qualche giorno, nel corridoio del Setificio di Como ci sono esposte alcune mie foto,non una mostra in senso stretto ma una mostriciattola occasionale in cui ci sono due elementi di interesse:
invitare gli studenti a insistere con le ibridazioni fotografiche in fase di ripresa
allargare la tavolozza delle ibridazioni alle potenzialità di stampa su tessuto, con qualità (quasi) fotografica.
Qui vediamo un paio di inquadrature:
sopra: il restyling in occasione della festa di fine anno – sotto, la versione studiata con gli studenti che però era troppo “ballerina”
Il testo delle didascalie è questo:
1868 – 2018 Municipio di Como, 5 Aprile
Il 150° di apertura del Setificio viene celebrato nel salone d’onore di Palazzo Cernezzi.
Le foto della cerimonia che presentiamo qui proseguono una ricerca sulla ibridazione nella fotografia, mescolando tecniche, apparecchi, stili visivi e tecniche di stampa, analogico e digitale, che al Setificio stiamo svolgendo da alcuni anni.
Foto ed elaborazione grafica: Sergio Palazzi
TECNICHE DI RIPRESA:
Rolleicord Vb, adattatore 16 pose, ob. Schneider Xenar 75 mm/ 3.5. Flash elettronico. Pellicola Bergger Pancro 400, sviluppata in D76.
Inquadratura, illuminazione e resa tonale cercano di riprendere l’estetica delle foto di cerimonia degli anni ’60, come se le avessimo scattate in occasione del centenario nel 1968.
Le fotocamere meccaniche lasciano spesso nell’immagine un proprio
marchio di fabbrica: la cornice con i “cornetti”, volutamente riportata, è il segno tipico di una TLR Rollei con adattatore 4.5×6.
La pellicola, di ultima generazione, consente di controllare una scala tonale molto ricca e morbida, compensando la durezza della illuminazione frontale.
Qualche idea lanciata a chi studia fotografia, per cercare percorsi visivi che si stacchino dall’omologazione digitale e dagli “effetti” standard, già preconfezionati nei sw commerciali.
ELABORAZIONE E STAMPA:
Il negativo è stato scandito con un Epson V700 e Silverfast 8.8, alla risoluzione di 2400 dpi / 8 bit.
Per il ritocco, il bilanciamento e l’impaginazione sono stati usati solo SW open source: Irfanview e Scribus.
La stampa è stata realizzata per trasferimento termico a sublimazione su raso di PET da 208 g/m², presso il laboratorio Pizzala del Setificio.
La carta transfer è stata stampata sulla Mimaki JV 150/160 dell’Istituto, con inchiostri in quadricromia base.
Una ulteriore ibridazione del percorso ricollega quindi queste immagini a ciò che il corso di Sistema Moda sta sviluppando per la sostenibilità e la tracciabilità della produzione tessile: la successiva evoluzione sarà l’uso di PET riciclato 100% che, abbinato alla stampa a sublimazione, consente l’impatto ambientale di gran lunga minore tra tutti i processi per ottenere tessuti stampati, anche per immagini di qualità prossima alla stampa fotografica.
Gear Gallery:
La Rolleicord Vb con adattatore 16p. Anche se sono ancora reperibili i flash a lampade al magnesio usati fino agli anni ’70, si è optato per un flash elettronico compatto.
La Canonet 17QL, ob. 40 mm/1.7, usata per ulteriori riprese non inserite in questa mostra, oltre che per le foto in luce ambiente scattate alla conferenza di M. Pistoletto del 5 aprile, esposte nel seguito in corridoio.
Un selfie della Pentacon Six TTL con Flektogon 50 mm/4 CZJ e fisheye Zodiak 30 mm/3.5, usata per le prime riprese della mostra
“Afrodite allo Specchio”, che introduce nelle nostre visioni ulteriori ibridazioni.
Le foto possono essere viste in orario di apertura della scuola (fino al 15.6 l’orario di servizio si prolunga a sera inoltrata, poi in orario diurno); al momento non è indicata una scadenza.
Si ringraziano il Preside, i tecnici (Marcello Casati per primo), le classi 4 Serale e 3M1M dei corsi Sistema Moda del Setificio… perchè la chimica è di moda, sempre!
Che la fotografia sia qualcosa di ibrido è quasi un truismo.
Tra arte e tecnica, tra vero e falso, tra rappresentazione e oggettività… e se fossi uno di quelli bravi mi metterei a zigzagare tra le elucubrazioni di Bloch o Barthes, Weston, McLuhan o Ritchin, così per dire.
Ma sono un fotografo programmaticamente dilettante, nel senso che, quando non mi diletto, le foto non le so fare e nemmeno mi interessano: quindi l’ibridazione a cui penso è molto più quotidiana.
Legata alla voglia di riprovare qualcosa che ho fatto o visto fare, e magari al far venire voglia di pellicola a chi non l’ha mai usata… e più passa il tempo e più sono convinto che la pellicola ci vuole; o insomma ci deve essere qualche altro oggetto fatto di materia, human-readable, non solo codici binari scritti su un supporto che solo una macchina può leggere, predestinati a scomparire presto.
In un certo senso il fotogramma su acetato, o su vetro o carta, è anch’esso un’entità ibrida: tra una scena che è effettivamente esistita, fosse pure per un nientesimo di secondo, e la rappresentazione congelata e quasi eterna che ne ho su uno schermo o un foglio stampato.
Chi è nato con le foto digitali, o ci si è buttato più o meno definitivamente, ibrida di continuo le immagini e la tecnica, e perlopiù non lo sa o non ci fa caso. Il bilanciamento automatico del bianco è già un’alterazione assurda, se vogliamo parlare di teoria del colore: anche senza usare le dozzine di filtri con cui il cellulare più grezzo può pastrugnare l’immagine, prima o dopo lo scatto, distorcendone la famosa oggettività.
(Che poi, all’oggettività della foto, ci credevano solo quei gran farlocchi dei veristi o realisti di ogni razza e colore).
Ibridazioni digitali che in un certo senso partono dal dodging and burning che da sempre si fa in camera oscura, o dal fotomontaggio che fin dagli albori costruiva una realtà fittizia, ma cui spesso manca proprio l’elemento di base dell’intenzionalità, della consapevolezza. E magari la serietà del gioco, rispetto alla banalità dello scherzo.
Ma sto divagando ancora. In realtà l’ibridazione a cui penso è
soprattutto quella tecnica, mescolare apparecchi, ottiche, pellicole per vedere l’effetto che fa.
Il gioco di riassortire e mescolare e di-vertire.
Partire dal bricolage, passare attraverso il kitsch e magari fare un passo in più.
Tutto è già stato inventato, gettato e ritrovato, quindi niente di nuovo: in migliaia lo han già fatto prima e meglio di me. Ma lo stesso si può dire della musica o della scrittura, non parliamo della moda… qui ci sono alcune foto che ho realizzato durante la mostra di ComOn 2017, a S. Pietro in Atrio di Como, il cui tema era proprio NOW IS HYBRID: due sono state pubblicate anche da TESS n. 12/2018.
Anche questo lavoro fa parte dei progetti didattici con cui cerco di insegnare un po’ di foto|chimica ai ragazzi (e non solo), loro che son rimasti così indietro da essere ancora fermi ai tempi del digitale. Anzi, avremmo dovuto lavorare un po’ di più sull’installazione comasca, con una terza di Sistema Moda /Disegno di Tessuti, ma era periodo di verifiche e non siamo riusciti.
Vedo che la materialità dell’immagine li attrae e li incuriosisce – se no, come spiegare il revival della foto istantanea, quello sì poco comprensibile anche per me? (*)
Tranne la sprocketata sul lago (da una ur-Ercona 6×9), le altre sono state ottenute con questa signora, montando il dorso a lastre b/n con Fomapan 100 (su slitta Pentacon per lo scatto 3D), oppure il dorso 120 per il colore.
Magari ne abuso un po’, ma lei già alla nascita si chiamava Sirene, entità ibrida, e lo era ulteriormente essendo un modello Wünsche passato alla ICA, che poi sarebbe stata merged nella Zeiss Ikon nel ’26…
La testatina con le colonne di luce riflesse sul lago, sulla mia pagina Twitter, era stata ripresa con la stessa macchina durante il suo giro di prova.
(*) ma prima o poi lo provo, con la Rolleicord e il dorso a lastre non mi servono nemmeno adattatori, solo due dita robuste…
Settembre andiamo, è tempo di tornare. Ogni anno, il rito del primo collegio dei docenti: al Setificio di Como, che – come Alice aveva constatato quando faceva le elementari – ha molto in comune con Hogwarts. Piove e fa fresco, dopo settimane torride. La testa che gira tra tanti pensieri.
Poi a casa ti siedi a tavola, e Alice butta lì: “papà, oggi sono 19 anni dopo“.
Che a dirla così è una frase del menga. Ma, per uno strabiliante numero di abitanti di questo pianeta, basta per far partire un frullatore tra l’aorta e l’intenzione.
Per chi non ha ripassato bene storia contemporanea, cerchiamo di essere precisi. Harry Potter nasce il 31.7.80, da due genitori ventenni (molti dei personaggi sono del magico 1960); il 31.10 dell’anno dopo subisce il tragico incantesimo, e inizia a scoprire la magia alla vigilia dell’1.9.91, quando sale la prima volta sul treno per Hogwarts. Le sue vicende più note culminano nel duello finale con (non ti dico chi) al primo raggio del sole del 2.5.98.
In quel maggio, Muggle Standard Time, stavo preparando la cameretta per Alice che sarebbe arrivata a settembre, e mi esaltavo per il Giro d’Italia di Pantani. Ovviamente all’epoca non sapevo niente del resto, principalmente perchè non era stato ancora scritto.
L’epilogo del settimo volume vede i protagonisti già adulti che accompagnano i loro figli al binario 9 3/4, e si intitola Nineteen years later.
Primo giorno di scuola per Albus Severus.
Oggi.
Ho conosciuto Harry quando alcuni dei libri erano in giro già da un po’, vorrai mica che uno come me si metta a leggere certa roba. Però, però… alohomora: crollo dei dubbi a prima vista.
Man mano che li leggeva Alice, leggevo anch’io le (meste) traduzioni italiane, poi li ho ricomprati tutti in inglese, mi sono riportato al passo delle uscite nostrane al momento di Halfblood Prince, e quando è arrivato The Deathly Hallows l’ho preso subito in edizione originale.
Con grande scorno della prole, ancora troppo scarsa in inglese: a mezzanotte dell’Epifania 2008, quando lei ghermì la sua italica copia (che poi giammai non lessi) io lo sapevo già quasi a memoria.
Specialmente il duello finale, che nel libro era una sceneggiatura pronta per la regia di John Ford e nel film hanno rovinato completamente.
A proposito di tutti i film, che ho rivisto chissà quante volte: so di non essere originale, ma quello che non mi stancherà mai è The Prisoner of Azkaban, e non solo per la scena migliore di tutto il ciclo (quella in cui Hermione stende Draco).
Se qui mi metto a parlare di Harry, e di tutto quel che ne ho discusso anche a scuola (con docenti di inglese e no, oltre che con tanti ragazzi/e), non finisco più. L’ho usato chissà quante volte anche spiegando chimica.
Ad Alice – la cui competenza potteriana è inavvicinabile – probabilmente ha fatto anche venir voglia di inglese, che ormai conosce troppo meglio di me (a proposito: dato che devo ripassare, penso che leggerò presto The Order of the Phoenix, che è l’unico che – per la mole – avevo lasciato indietro).
Non so chi avesse il volto più illuminato, quando poco giorni fa abbiamo scattato questa. Ma forse era il mio, quando qualche miglio più in là, affondando nella torba fangosa, ho scattato quest’altra . Quelle con lei in primo piano ce le teniamo per noi.
Sasha ci lasciava fare, è abituata.
Lo so che per molti sono discorsi che non dicon niente.
Ma a miriadi di persone dai sei ai cent’anni le emozioni saltellano come leprechauns, e l’hashtag #19YearsLater per tutto il giorno ha oscillato ai primi posti in funzione dei fusi orari.
Così, per dire.
Grazie, J.K.
Autumn has really arrived suddendly, this year. All is well.
Sono Sergio Palazzi, chimico, insegnante, fotografo ed alcune altre cose. Questo, dal 2006, è il mio sito.