Riproduco l’articolo comparso su FdN nel 2003, con la stessa data. Ho rivisto solo la punteggiatura.
From: Sergio Palazzi
Subject: Una notte di relativa quiete, sessant’anni fa
Date: Sun, 26 Jan 2003 21:58:40 +0100
Caritutti,
la giornata della memoria di domani ci riporta a un avvenimento che ricorda il suo cinquantottesimo anniversario, nel freddo gennaio polacco. Visto che non sono sospettabile di prendere sottogamba quella mattina, vorrei invece spingere la memoria indietro di due anni ed un giorno, alla sera di sessant’anni fa giusti giusti.
In questo momento sono passate forse sei ore, da quando il sole si era coricato, in Ucraina. Togliendo anche la consolazione del suo impercettibile tepore, a decine di migliaia di uomini malridotti che avevano nella migliore delle ipotesi un rifugio di fortuna in poche isbe.
Era stata una giornata tremenda, la più dura di un mese di sofferenze, da quando era iniziata la ritirata di Russia. Il dittatore al tramonto, che non aveva ascoltato chi gli spiegava che era da idioti voler mandare un’armata di duecentomila uomini male armati dove già sessantamila si erano trovati in difficoltà pochi mesi prima, a Roma doveva accettare l’idea del ripiegamento. Ma la realtà che vedevano i suoi soldati, a qualche grado di longitudine più ad ovest, praticamente piantati in asso da quell’alleato tedesco che in altre occasioni sarebbe stato prodigo di accuse di tradimento verso gli altri, era più dura del pur freddo gennaio mediterraneo.
Da quasi un mese la marcia nella steppa coperta di neve diventava sempre più faticosa. Se mai si saliva a dieci sotto zero, era una festa. I russi stavano completando un accerchiamento che sarebbe diventato una tonnara, per le truppe italiane e per i pochi reparti tedeschi e di altri alleati che si muovevano con loro. Da diversi giorni la tenaglia diventava più stretta, cercare rifugio in un villaggio per la notte significava dover conquistare le case ad una ad una. Le truppe dell’Armata Rossa, di cui festeggeremo domani un’avanzata che ha portato un lampo di libertà, due anni prima picchiavano mazzate durissime sulla massa in ripiegamento.
Ormai solo le truppe alpine avevano ancora i mezzi per combattere, ed avevano già pagato duramente: la divisione Cuneense era stata massacrata, la Julia aveva fatto miracoli nelle battaglie dei giorni precedenti, la Tridentina aveva ancora fiato, anche se molti suoi reparti erano praticamente scomparsi.
La mattina del 26 gennaio 1943 era cominciata peggio del solito, in prossimità di un villaggio occupato dai russi. La battaglia stava iniziando, ma presto aveva preso i toni di un massacro. Non ne esiste un resoconto preciso, di quella giornata: Bedeschi, nel suo sobrio “Centomila gavette di ghiaccio”, per raccontarla smette le narrazioni individuali e per due pagine usa toni tanto epici quanto offuscati. Corradi, nel suo asciutto “La ritirata di Russia”, rinuncia addirittura a raccontare se non attraverso le parole delle relazioni militari, d’altronde lui era su un altro lato del fronte, alla fine di gennaio, e il nostro miglior cronista di guerra raccontava solo quel che aveva visto con i suoi occhi.
Non aveva quindi visto il terrapieno della ferrovia, dietro al paese, dove si erano attestate truppe ingenti, mitragliatrici, blindati, artiglieria come se piovesse. E l’unica immagine che ce ne possiamo fare, anche noi, è nel mosaico di migliaia di scene raccontate da quegli uomini istupiditi dal freddo, dalla fame, dalle ferite, dai pidocchi, che anni dopo hanno detto “c’ero anch’io”…
Alcuni di quei fotogrammi li ricordavano in molti, tra i superstiti, da quando al mattino gli ufficiali han dato l’ordine di andare avanti con l’unica arma che poteva ancora funzionare: un cieco sfondamento di massa. In molti hanno visto il generale Martinat squarciato da un proiettile, che si rialzava solo per un estremo incitamento agli alpini. O don Carlo Gnocchi che continuava a soccorrere i feriti e a benedire i morti, e non sapeva che un giorno sarebbe salito agli altari. Tutti ricordano solo che la giornata volgeva alla fine, che le continue spallate non servivano più, che ormai era la fine e retrocedevano verso il ghiaccio. Non sapevano nemmeno che in una situazione simile, però nella calda estate precedente, a Isbuscenski quei matti del Savoia Cavalleria avevano compiuto una azione assurda, caricando a cavallo i carri armati, ed avevano avuto fortuna. Se anche l’avessero saputo, non li avrebbe aiutati. Faceva freddo ed il pomeriggio avanzava. E cavalli e muli erano assiderati.
Ma di matti per fortuna ogni tanto ce n’è, e uno era il generale Reverberi. E una delle scene che hanno visto in molti è stato un blindato malridotto che, tra i disperati in fuga, si girava ancora verso il fronte, con sopra Reverberi che, allo scoperto, si era messo a gridare “Tridentina, avanti!”, ed ha continuato per un tempo interminabile, metro per metro, fino a non aver più voce. Gli alpini della Tridentina, quel che restava del Quinto, gli sono andati dietro. E si sono tirati dietro gli altri. Nessuno ha capito bene cosa succedesse, ma quando il sole è calato la ferrovia era stata superata, i russi avevano ripiegato dopo aver preso una gran botta.
Così, quella notte, nelle isbe nessuno poteva sapere che la sacca della tonnara era stata strappata, che nei giorni successivi ci sarebbero stati ancora scontri duri, ma in che quella colossale e disorganica zuffa gli uomini appiedati nella neve avevano aperto a tutti la porta verso l’Italia. Un’altra pagina di resistenza disperata, come sono purtroppo tutte le più belle panoramiche collettive della nostra storia militare, il Piave, El Alamein, Cefalonia: qualcuna andata meglio, qualcuna peggio.
Non c’è stato uno Spielberg, un Eisenstein, un Leone, per raccontare quelle scene sulla neve della steppa. Il ricordo confuso le ha fatte diventare racconto epico, come le storie che i cosacchi già raccontavano quando si era appena spenta la voce di Taras Bul’ba. Visto che per una coincidenza, molti anni dopo, sono stato alpino dell’Edolo, con il 5 sul fregio del cappello, mi pareva brutto che oggi non me ne ricordassi nemmeno io.
Questa mattina, a Brescia, o vicino a Reggio Emilia dove è sepolto Reverberi, o in tanti altri luoghi, gli ultimi reduci si sono incontrati sempre più radi. I giornali, presi dall’attualità, delle cerimonie di questi giorni non si sono nemmeno accorti.
Non so come dormiranno, questa notte, quei pochi ottantenni rimasti. Cosa penseranno ritornando a quella notte di freddo, fame e sangue, ma anche di relativa quiete, sessant’anni fa, là a Nikolajewka.
Sergio Palazzi