Il primo articolo si chiama sempre così, e intanto penso a cosa scriverci.
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quando sparivano le diapositive
Ricaricato dalla vecchia pagina di kemia.it. Riflessioni sulle dia. Oggi, di quelle pellicole, se ne trova qualcuna in più. Forse abbiamo toccato il fondo e stiamo già per risalire, come era successo per il vinile.
25.3.2016
E’ quasi un anno dalla fine del Kodachrome. Ho proseguito ad usare le Fuji Sensia per poi veder finire anche quelle. Anche Kodak sta lasciando svanire il settore delle dia, per cui restano le top Fuji. E’ vero che un rullino sviluppato di Velvia costa solo un 25% più di un Sensia e che il risultato è quasi-Kodachrome, però ti girano, ah come ti girano. Sopra i 200 ISO si deve andare solo in negativo colore? In compenso, per la prima volta, ho comprato della TRI-X: da ridere ma il b/n più venduto della storia non l’ho mai provato. Dopo l’Islanda sto ritornando alle pellicole a grana tradizionale, da fine anni 80 avevo usato al 90% le T-Grain.
quando arrivò lo smartphone
Non sono stato tra i primi a comprare un telefonino che fa le foto. il primo l’avevo comprato una dozzina d’anni fa, ma chiamare foto delle immagini alla risoluzione di mezzo VGA era difficile. Poi nel 2008, per un problema da risolvere urgentemente, avevo comprato di seconda mano un Sony K800i. Il primo smartphone, in un certo senso; quello che usava James Bond come arma segreta. La roba elettronica invecchia in modo patetico. Comunque l’ho fatto lavorare cinque anni e, a cambiargli la batteria, funzionerebbe ancora. Dal punto di vista della foto d’azione la sua comodità e rapidità di fuoco erano incomparabili rispetto a quelli di oggi, anche se lo sportellino era scomodo da ogni altro punto di vista.
25.3.2016
Come si cambia. Il sogno di una vita era quello di avere in tasca una macchina fotografica in ogni momento. Il telefonino che avevo preso nel 2004 aveva una microfotocamera che faceva delle discrete fototessere a risoluzione zerovirgola, ma ovviamente non era quel che intendevo. Quando ha deciso di mettersi a riposo, ho optato per uno con fotocamera da 3.2 e memoria illimitata. Adesso HO una fotocamera sempre con me, anche se non è certo una delle solite. Operativa nel tempo che serve per estrarla dalla tasca facendo scorrere la protezione dell’obiettivo. Nei primi quattro giorni, cercando di non esagerare, sono arrivato a quasi 400 scatti. Avrò bisogno di qualche tempo per adattarmi a questa nuova dimensione.
Il mio mondo in 28 mm e la catastrofe della Valtellina.
(riedito dalla prima versione di questo sito
le immagini sono qui )
Il 17 e 18 luglio 1987 l’alluvione in Valtellina aveva raggiunto il suo acme. Nel giro di pochi giorni iniziarono a cadere altre importanti frane, dopo la prima di Tartano, che andarono a complicare ulteriormente i devastanti allagamenti, fino alla catastrofe di Sant’Antonio ed Aquilone. I soccorsi partirono in maniera abbastanza efficace con un’importante presenza di volontari.
L’Associazione Nazionale Alpini si segnalò anche in quest’occasione come una delle strutture più importanti nel gestire i soccorsi dopo una catastrofe. I volontari del gruppo di Lurate Caccivio, con aggregati alcuni alpini dei gruppi di Fino e di Lomazzo, vennero distaccati a Fusine, di fronte a Berbenno e Postalesio, quasi in fondo alla grande valle. Di qua il disastro, di là poco più di un grosso guaio.
Lì sono rimasto qualche giorno, dal 10 al 16 agosto.
Lo scopo principale era evidentemente spalare palta, spalare sassi, merda, per far sentire ai valtellinesi, che stavano facendo le stesse cose con quel che restava delle loro case, che non erano da soli. Non per completare un lavoro di recupero che avrebbe richiesto mesi o anni, ma per lasciare tante macchie di luce nel grigio, che fossero da stimolo per non mollare.
Per me, scopo accessorio, come sempre, era scattare qualche foto.
Attrezzatura ridotta al minimo: Canon FTb con 28 mm 2.8, uno zoom Komura 80-200 mm, un piccolo flash a slitta. Pochi rullini in bianco e nero. Relativamente pochi scatti – visti i miei standard anche di allora – presi nei momenti di libertà, o in qualche ora di salita in fuoristrada in val Madre e in valle di Tartano.
La FTb, che avevo comprato usata a fianco della mia prima AT1, era stata per circa cinque anni la mia terza mano per afferrare la realtà. Il mio modo di osservare il mondo, da qualche anno, era l’apertura angolare di un 28 mm. Non lo dico con enfasi, è solo una constatazione di un fatto.
L’ultima sera della nostra permanenza, in occasione del pranzo con sindaco ed autorità nel salone municipale, ho lasciato sul tavolo la FTb con montati il 28 e il flashino, per poi passare la serata all’esterno, fumando e discutendo dei casi della vita.
Uno dei commensali ha pensato di prelevare il tutto per suo ricordo: compreso il rullino già scattato, fotogrammi dedicati soprattutto al colore, alle persone, a quella anziana in nero che cercava di pulire dal fango la tomba dei suoi genitori.
Non sono capace di lanciare maledizioni, ma l’avermi privato di quel rullino, e della possibilità di documentare la processione di ringraziamento del giorno dopo – festa di San Rocco – a quel signore, di cui ho intuito l’identità, non l’ho perdonato. E non solo perché, se avessi potuto completare quel servizio, avrei avuto buone possibilità di venderlo a qualche rivista.
Nell’autunno dell’87 un circolo di fotoamatori organizzò, insieme all’Enel che aveva evidentemente vissuto l’alluvione con un’attenzione speciale, una mostra fotografica presso il salone comasco dell’azienda. Mi avevano chiesto di partecipare ed avevo esposto un certo numero di immagini, stampate all’argento e virate, come allora era normale (al solfuro e al selenio su baritata, se vogliamo essere pignoli). Non mi ricordo molto di quella mostra, dovevamo essere due autori; mi ricordo però che è stata l’ultima mostra di mie fotografie in uno spazio aperto al pubblico. Tant’è vero che quelle stampe sono ancora per la maggior parte in quelle cornici, mai più riutilizzate ed ormai macchiate dalla muffa.
Tempo dopo ho trovato d’occasione un 17 mm FD – uno dei più grandi obiettivi della storia – ed ho allargato ulteriormente il mio modo di osservare, montandolo per lo più su una F1, che mi avevano venduto come rottame e che da allora ha scattato ineccepibilmente forse trentamila volte. Non avevo più comprato un 28 mm; credo, stavolta, non per caso.
Ho continuato a scattare uno sproposito di immagini, quasi mai mostrandole in pubblico, anzi spesso limitandomi a sviluppare il negativo ma senza guardarle nemmeno io, con il caso estremo dei giorni di Berlino di cui ho raccontato in altra sede. Non so quanto abbia influito l’esperienza della Valtellina, su questa mia ritrosia che per qualcuno è quasi fobica.
Di quei pochi ma intensi giorni ricordo alcune persone, ormai in buona parte andate avanti: molti stupendi alpini, alcuni celebri secondo il mondo, altri no, che già sulla settantina avevano ritenuto necessario e naturale prender su cappello e badile e partire. Ricordo lo sguardo di una ragazza di Verona che mi è spiaciuto non rivedere; ricordo altri volti che se rivedessi non tratterei bene, pensando a quello scherzo.
Ricordo tutto sommato piuttosto poco dei valtellinesi.
Avevo capito, per la prima volta in presa assolutamente diretta, che cosa significhi una catastrofe ambientale e come l’azione dell’uomo possa moltiplicarne o meno gli effetti.
Avevo sentito nelle ossa (e nel fondoschiena), moltiplicato per mille, il panico che provai anni prima, scivolando in un torrente cementificato e venendo trasportato per decine di metri da nemmeno due dita d’acqua, prima di riuscire a ribaltarmi fuori; che è un modo concreto di capire cosa significhi “la forza che l’ha g’ha l’acqua”.
Ricordo che le case vecchie, messe in posizione più scomoda ma defilate ai lati del torrente, si erano più o meno abbondantemente allagate ma non avevano riportato danni devastanti, mentre le case e le aziende nuove, costruite in prossimità del torrente erano state frantumate, riempite, spazzate via.
Sarebbe bastato dare retta ai vecchi, che sapevano che ogni qualche decennio quella specie di pisciatoio si trasforma in un mostro, capace di trasportare massi di cento tonnellate: non è arcadismo o arcaismo, solo buon senso ed intelligenza nel progettare.
Tecnologia e statistica, se vogliamo.
In tempi recenti, discutendo di interventi per il risanamento e la manutenzione di piccoli corsi d’acqua, mi è capitato di pensare che chi ne parlava dicesse degli spropositi, sia su materie di cui qualcosa capisco (chimica, depurazione), sia su altre – come l’idraulica – di cui magari capisco un po’ meno, ma insomma non proprio nulla. Mi fanno notare che di fronte a quegli spropositi reagisco piuttosto male. Credo che la mia insofferenza derivi anche da quell’esperienza.
Non me ne frega niente se qualcuno giudica questo mio atteggiamento di oggi poco “politico”, nell’87 la mia lunga militanza politica si avvicinava già alla fine, ed il Ministro che era venuto a visitarci – poi diventato famoso per altri guai – ci muoveva al sorriso per la sua goffaggine.
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Ero tornato un po’ più spassionato e un po’ più disilluso, ma avevo capito con certezza almeno una cosa: con la barba sto molto meglio che con i baffoni da tricheco.
A settembre avevo ripreso il lavoro per la mia tesi di laurea in chimica, lasciando da parte gli aspetti ambientali che ho ripreso solo in seguito.
Non sono più tornato in Valtellina, salvo una volta di sfuggita per risalire lungo una laterale. Non ho nemmeno mai visto la grande frana di Sant’Antonio. Credo sia sostanzialmente solo un caso.
L’anno scorso in una vetrina ho visto una bella FTb con vicino un 28 mm, gemelli di quelli di allora; li ho comprati pensando che ad Alice potranno servire, se e quando vorrà capire cosa significhi fare clic.
Nel frattempo, li uso intensamente io, lasciando spesso a casa tutto il resto dell’armamentario, per forzarmi a riprendere il mio precedente modo di inquadrare – non è stato semplice ricominciare a usare il 28, che non è solo una via di mezzo tra il 17 e il 35.
Averlo ripreso mi aiuta anche a riguardare meglio le inquadrature di allora. Il tipo che le riprendeva aveva in comune con me il nome, alcune abitudini, la pipa ed il Negroni, ma inevitabilmente da alcuni punti di vista era un’altra persona, che vedeva il mondo diversamente e non solo per via del 28 mm o degli occhiale da presbite che dovrò presto cambiare.
Avevo riportato a casa 230 fotogrammi, in questo anniversario li ho scanditi e riguardati con attenzione per la prima volta da allora. Molte delle immagini che ho scelto oggi non erano quelle che avevo scelto per la mostra di allora.
Pochi mesi dopo aver ripreso a vedere il mondo in 28 mm ho aperto questo sito, in cui supero la ritrosia e l’accidia nel mostrare le mie immagini. Oggi, 18 luglio ’07 – Francesco direbbe “quasi come Dumas” – mi è venuta voglia anche di commentarle, e se mi è difficile commentare le immagini lo è anche di più commentare le emozioni, per cui non aggiungo altro.
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addenda marzo 2010. Una prima media mi segnala che hanno non solo guardato le foto, ma anche letto questo commento. Hanno notato due parolacce: eh già, ci sono. Qual è il senso? E’ che, per descrivere una cosa oscena, orrenda, straordinaria come questo scempio, o la rabbia e l’orgoglio di aver fatto una pur minima cosa per rimediarvi, non bastano le parole che si usano normalmente. Si possono, forse si devono usare proprio quelle che normalmente non si usano per le cose ordinarie. Perchè la differenza si deve vedere. Bravi, ragazzi, grazie a voi e alla vostra insegnante.
L’accompagnatore di antiche signore
Questo era l’articolo di presentazione sulla pagina di fotografia di kemia.it nella vecchia versione.
L’ho retrodatato 20.10.2006 perchè era in quei giorni che stavo allestendo il sito.
Adesso gli anni sono circa 40 e le antiche signore che ho frequentato sono molte di più: anzi, da un po’ di tempo sto insegnando a tante/i ragazze/i quante soddisfazioni ti può dare la cosa 🙂
25.3.2016
Sono una trentina d’anni che faccio l’accompagnatore di macchine fotografiche.
Soprattutto di quelle che sono ormai anziane e sole, e apprezzano che qualcuno le porti a spasso come quando erano giovani ed invidiate. Quasi tutte, va aggiunto, hanno già avuto altri e più validi compagni prima di me – ti danno anche l’ansia del non deluderle.
Di solito sono compagnie relativamente vistose, ti pesano (sul collo), per cui non è che le porti a spasso solo per il gusto di farlo, vuoi combinarci qualcosa. Dopo qualche giorno, ma non è raro che l’attesa si prolunghi per settimane, da quegli incontri nascono delle serpi di acetato di cellulosa, frammentate da una quarantina di rettangoli, molto spesso grigi. A volte sono invece degli striscioni più corti e larghi divisi in dodici parti quadrate, come in uno zodiaco romanico. I primi frammenti erano anche loro quadrati, molto più piccoli, ma di quelli non ne nascono più. Ogni tanto ne sono apparsi altri di formati ancora più impensati.
Per non far pesare troppo a quei ritagli la loro nascita nella colpa, bisogna visitarli, guardarli con attenzione e magari presentarli agli amici, cosa che faccio molto raramente, non solo per pudore ma anche per pigrizia. Non è comodo e richiede tempo (e soldi).
Quelli grigi, orgogliosi della loro equivoca origine, richiedevano fino a qualche anno fa un ulteriore passaggio da una maleodorante sala parto, a luci rosse o clorose. Gli altri, di essere affidati a mani altrui, spesso infide, o di finire sotto un faro in un ambiente in penombra, un tempo anche fumoso, con qualche spettatore annoiato.
Da qualche anno chiedo aiuto all’elettronica giapponese, grazie a quelle macchinette che, tra gemiti e ronzii, mettono ulteriormente in luce le metafore della scomparsa in una fenditura o del giacere immobili su un letto illuminato. Perlomeno, con questi ulteriori passaggi, guardarli su un monitor, ingrandirli all’inverosimile, alterarli in ogni modo e magari copiarli su carta è molto più rapido ed efficiente (*).
Così siamo qui, e ne tiro fuori un po’. Molte fra loro riguardano sassi o metalli, erosi dal tempo o trasformati dalla pazienza umana.
Non venitemi a dire che la chimica inorganica non è affascinante.
(*) Dicono che tutto questo si può fare direttamente e senza passare dal via, con quelle cosine piccine che al posto di consumare pellicola consumano batterie (ricaricabili). Vero. In effetti lo faccio. Anzi, mai fatto cosi mostruosamente tanti scatti come da quando a Sasha ho regalato una digitale. Compatta, non purpurea, intendo. Ma non ho ancora trovato il sistema di infilarci dentro un Kodachrome. Vuoi mettere la differenza tra vedere subito che hai perso l’istante decisivo perchè l’oggetto prima di fare click doveva pettinarsi i chip e truccarsi i chop, e aspettare magari un mese la busta del Kodachrome di ritorno dagli USA, sapendo però già prima cosa ci vedrai dentro?
Una notte di relativa quiete, sessant’anni fa
Riproduco l’articolo comparso su FdN nel 2003, con la stessa data. Ho rivisto solo la punteggiatura.
From: Sergio Palazzi
Subject: Una notte di relativa quiete, sessant’anni fa
Date: Sun, 26 Jan 2003 21:58:40 +0100
Caritutti,
la giornata della memoria di domani ci riporta a un avvenimento che ricorda il suo cinquantottesimo anniversario, nel freddo gennaio polacco. Visto che non sono sospettabile di prendere sottogamba quella mattina, vorrei invece spingere la memoria indietro di due anni ed un giorno, alla sera di sessant’anni fa giusti giusti.
In questo momento sono passate forse sei ore, da quando il sole si era coricato, in Ucraina. Togliendo anche la consolazione del suo impercettibile tepore, a decine di migliaia di uomini malridotti che avevano nella migliore delle ipotesi un rifugio di fortuna in poche isbe.
Era stata una giornata tremenda, la più dura di un mese di sofferenze, da quando era iniziata la ritirata di Russia. Il dittatore al tramonto, che non aveva ascoltato chi gli spiegava che era da idioti voler mandare un’armata di duecentomila uomini male armati dove già sessantamila si erano trovati in difficoltà pochi mesi prima, a Roma doveva accettare l’idea del ripiegamento. Ma la realtà che vedevano i suoi soldati, a qualche grado di longitudine più ad ovest, praticamente piantati in asso da quell’alleato tedesco che in altre occasioni sarebbe stato prodigo di accuse di tradimento verso gli altri, era più dura del pur freddo gennaio mediterraneo.
Da quasi un mese la marcia nella steppa coperta di neve diventava sempre più faticosa. Se mai si saliva a dieci sotto zero, era una festa. I russi stavano completando un accerchiamento che sarebbe diventato una tonnara, per le truppe italiane e per i pochi reparti tedeschi e di altri alleati che si muovevano con loro. Da diversi giorni la tenaglia diventava più stretta, cercare rifugio in un villaggio per la notte significava dover conquistare le case ad una ad una. Le truppe dell’Armata Rossa, di cui festeggeremo domani un’avanzata che ha portato un lampo di libertà, due anni prima picchiavano mazzate durissime sulla massa in ripiegamento.
Ormai solo le truppe alpine avevano ancora i mezzi per combattere, ed avevano già pagato duramente: la divisione Cuneense era stata massacrata, la Julia aveva fatto miracoli nelle battaglie dei giorni precedenti, la Tridentina aveva ancora fiato, anche se molti suoi reparti erano praticamente scomparsi.
La mattina del 26 gennaio 1943 era cominciata peggio del solito, in prossimità di un villaggio occupato dai russi. La battaglia stava iniziando, ma presto aveva preso i toni di un massacro. Non ne esiste un resoconto preciso, di quella giornata: Bedeschi, nel suo sobrio “Centomila gavette di ghiaccio”, per raccontarla smette le narrazioni individuali e per due pagine usa toni tanto epici quanto offuscati. Corradi, nel suo asciutto “La ritirata di Russia”, rinuncia addirittura a raccontare se non attraverso le parole delle relazioni militari, d’altronde lui era su un altro lato del fronte, alla fine di gennaio, e il nostro miglior cronista di guerra raccontava solo quel che aveva visto con i suoi occhi.
Non aveva quindi visto il terrapieno della ferrovia, dietro al paese, dove si erano attestate truppe ingenti, mitragliatrici, blindati, artiglieria come se piovesse. E l’unica immagine che ce ne possiamo fare, anche noi, è nel mosaico di migliaia di scene raccontate da quegli uomini istupiditi dal freddo, dalla fame, dalle ferite, dai pidocchi, che anni dopo hanno detto “c’ero anch’io”…
Alcuni di quei fotogrammi li ricordavano in molti, tra i superstiti, da quando al mattino gli ufficiali han dato l’ordine di andare avanti con l’unica arma che poteva ancora funzionare: un cieco sfondamento di massa. In molti hanno visto il generale Martinat squarciato da un proiettile, che si rialzava solo per un estremo incitamento agli alpini. O don Carlo Gnocchi che continuava a soccorrere i feriti e a benedire i morti, e non sapeva che un giorno sarebbe salito agli altari. Tutti ricordano solo che la giornata volgeva alla fine, che le continue spallate non servivano più, che ormai era la fine e retrocedevano verso il ghiaccio. Non sapevano nemmeno che in una situazione simile, però nella calda estate precedente, a Isbuscenski quei matti del Savoia Cavalleria avevano compiuto una azione assurda, caricando a cavallo i carri armati, ed avevano avuto fortuna. Se anche l’avessero saputo, non li avrebbe aiutati. Faceva freddo ed il pomeriggio avanzava. E cavalli e muli erano assiderati.
Ma di matti per fortuna ogni tanto ce n’è, e uno era il generale Reverberi. E una delle scene che hanno visto in molti è stato un blindato malridotto che, tra i disperati in fuga, si girava ancora verso il fronte, con sopra Reverberi che, allo scoperto, si era messo a gridare “Tridentina, avanti!”, ed ha continuato per un tempo interminabile, metro per metro, fino a non aver più voce. Gli alpini della Tridentina, quel che restava del Quinto, gli sono andati dietro. E si sono tirati dietro gli altri. Nessuno ha capito bene cosa succedesse, ma quando il sole è calato la ferrovia era stata superata, i russi avevano ripiegato dopo aver preso una gran botta.
Così, quella notte, nelle isbe nessuno poteva sapere che la sacca della tonnara era stata strappata, che nei giorni successivi ci sarebbero stati ancora scontri duri, ma in che quella colossale e disorganica zuffa gli uomini appiedati nella neve avevano aperto a tutti la porta verso l’Italia. Un’altra pagina di resistenza disperata, come sono purtroppo tutte le più belle panoramiche collettive della nostra storia militare, il Piave, El Alamein, Cefalonia: qualcuna andata meglio, qualcuna peggio.
Non c’è stato uno Spielberg, un Eisenstein, un Leone, per raccontare quelle scene sulla neve della steppa. Il ricordo confuso le ha fatte diventare racconto epico, come le storie che i cosacchi già raccontavano quando si era appena spenta la voce di Taras Bul’ba. Visto che per una coincidenza, molti anni dopo, sono stato alpino dell’Edolo, con il 5 sul fregio del cappello, mi pareva brutto che oggi non me ne ricordassi nemmeno io.
Questa mattina, a Brescia, o vicino a Reggio Emilia dove è sepolto Reverberi, o in tanti altri luoghi, gli ultimi reduci si sono incontrati sempre più radi. I giornali, presi dall’attualità, delle cerimonie di questi giorni non si sono nemmeno accorti.
Non so come dormiranno, questa notte, quei pochi ottantenni rimasti. Cosa penseranno ritornando a quella notte di freddo, fame e sangue, ma anche di relativa quiete, sessant’anni fa, là a Nikolajewka.
Sergio Palazzi
DIO (SEGUE DIBATTITO)
Riproposizione integrale, con minimi interventi editoriali, del post pubblicato su “P&p” del 30.6.98, una presentazione estesa è in questo articolo.
Cari Amedeo e Andrea, Gloria e Maurizio, Steve & c.,
il nostro capoclan doveva aver voglia di divertirsi, quando ha proposto un argomento di conversazione così banale
come “Esiste Dio?”, per il nostro salottino virtuale.
Ma vi siete sbilanciati in tanti, non posso tirarmi indietro.
Graze della provocazione, capo Gianni. Forse avevo bisogno di sfogarmi dicendo queste cose.
Si, io ci credo.
La domenica mattina scandisco per intero il Credo niceno-costantinopolitano, e sono convinto di quel che dico.
Come può farlo uno come me, tacciato di iperrazionalismo scientista, che quando vede astrologi e omeopati porta la mano al lanciafiamme? Sasha me lo chiede spesso. Lo faccio e basta.
Credo in Dio uno e trino, che un giorno spero mi farà capire cosa significa.
Credo nelle cose visibili e invisibili da Lui create.
E mi pesa meno credere nel mio angelo custode, che nel confinamento dei tre quark o nella massa del neutrino, che pure non vedo e i cui effetti mi sembrano assai meno percettibili: non di meno mi fido degli argomenti di chi sostiene che ci siano.
Credo nella resurrezione della carne, che non so come sarà ma, vi prego di fidarvi se ve lo dico, so che ci sarà. Deorum manium iura sancta sunto.
La Comunione dei Santi è un concetto letterario, ma credo di non fare del sincretismo se vi includo quelle esperienze visionarie e sciamaniche, note per intuizione diretta a tutti i popoli freschi e giovani.
Quella sotterranea immanenza che Buzzati sente fra i monti e Guareschi fra le nebbie del fiume.
Credo in Dio perché sento che c’è, e più di una volta l’ho sentito chiaramente: eppure, non somiglio a un mistico, anche se amo l’umile ipnosi dell’Om e del Rosario. Non chiedetemi di più, non lo capisco ma so che è vero, e non mi servono dimostrazioni.
E, se Dio c’è (pardon: dal momento che Dio c’e), voglio credere in Gesù Cristo, morto e risorto, perche è il solo volto rivelato di Dio che mi soddisfi.
Se su questo punto mi sbaglio sono fregato comunque, se ho ragione ho qualche speranza.
Ho avuto la fortuna di essere educato in modo cristiano ma non bigotto; ho fatto qualche incontro giusto nei momenti giusti, il mio amico don Eugenio, I’Ipotesi di Messori, l’angoscia di Quinzio, la forza che scuote le vecchie ossa di Wojtyla.
Cattolico o ortodosso?
Fa poca differenza, per cui resto cattolico, anche se hanno svilito la solennità del rito latino.
Protestante? No, grazie. Calvino e Maometto mi dannano entrambi, ma almeno in questo mondo il secondo mi concede qualche sollazzo in più.
Potrei essere ebreo, è l’unica altra strada che mi convince: ma non sono nato ebreo. Amo le volute del Talmud e anche il pietismo chassidico, per quel po’ che ne conosco, ma quando mi avvicino all’ebraismo sento che mi mancano quelle risposte che stanno nel secondo tomo di quello che Steve chiama un libriccino.
Non riuscirei a temere che forse il Messia non verrà più.
Credo perché è meno difficile del non credere?
Per avere una regola morale che poi non riesco a vivere appieno?
Penso che senza Cristo sarei il più esasperato dei nietzschiani.
Non vedo alcuna altra ragione per non fregarmene nel modo più totale, violento ed assoluto di qualunque cosa che non sia il mio piacere immediato – perchè mai avere una morale?
Se lo scopo e la fine è il Nulla, ci voglio entrare alla grande, come il sommo violatore di ogni norma.
Dolce e triste Epicuro? Austero, baltico Kant?
Etica della conoscenza, patetiche disperate tesi del vecchio Monod, dalle quali si possono trarre conseguenze diametralmente opposte alle sue?
Non prendetemi in giro, ascoltate la risata del Qohelet.
Il Dio dei filosofi lo lascio ai filosofi.
Credo nel Dio invasato d’amore di Borges (“Juan, 1, 14”), che ha bisogno di conoscere la devozione dei cani, l’amarezza del calice, l’odore di quella falegnameria.
Credo nell’amore, nell’uomo, in tutti gli uomini, nella vita. Se no, che senso avrebbe sentire Alice che si muove nella carne di Sasha?