Nel numero di gennaio (2016) del Journal of Chemical Education si è trattato con attenzione un tema che ricorre nella letteratura pedagogica degli ultimi anni, quello della Flipped Classroom o classe capovolta. Ovviamente lo sguardo era rivolto soprattutto all’insegnamento nei primi anni del college, data anche la differenza strutturale del sistema scolastico USA dal nostro.
Per classe capovolta, detto in parole molto sbrigative, si intende una metodica (o meglio, un insieme di tecniche e procedure) in cui la lezione viene preceduta, non seguita, dallo studio/approfondimento domestico, per poi trovare il suo sviluppo nella lezione in cui il docente tende a fare più il mediatore del confronto che non il “dispensatore di sapere”. Il tutto con una serie di varianti che tengono conto anche della fascia d’età: le elementari probabilmente richiedono una didattica differente dal triennio di un istituto tecnico o dall’università. E mi fermo ad una descrizione approssimativa perché, come capita, sono scettico di fronte a categorizzazioni troppo formali ed astratte.
Proprio al mondo universitario (primi anni di college) si rivolge l’articolo di M.D. Ryan ed S.D. Reid sulla prestigiosa rivista. Con una pratica tipicamente anglosassone, concentrata non sulle intenzioni ma sui risultati, hanno voluto vedere se la cosa funzioni: facendo un esteso confronto quantitativo tra le prestazioni di diversi gruppi di studenti che sono stati esposti a questa metodologia, o a quelle di carattere frontale più tradizionali.
Va detto che a me questo approccio lascia un certo livello di dubbio, perché si basa sull’idea che in tutte le scuole si debbano insegnare le stesse cose che vengono poi valutate con test omogenei, quando al contrario il problema delle nostre sclerotiche scuole è che sono cronicamente in ritardo proprio sull’attuazione dell’autonomia e della responsabilizzazione individuale. Le quali peraltro sono in antitesi alla logica dell’esame di stato e del valore legale del titolo di studio, ma transeat.
Comunque, lo studio sistematico ha mostrato che, quando si lavora a classi capovolte, solo per le fasce più deboli dell’utenza si è misurato un miglioramento, per quanto non eccezionale. Il che non sarebbe un male, a patto che il gioco valga la candela.
Il fatto è che io stesso uso da una vita qualche sistema di questo tipo. Lo stavo facendo anche oggi, in diverse classi. Lo faccio ancora più spesso, da quando ci sono gli strumenti di interazione web tra classe e docente. Ne ho lasciato diverse tracce nella mia bibliografia.
E non penso di inventare niente: lo trovo una versione aggiornata del “Metodo Gutenberg”, che un vero rivoluzionario come Frank L. Lambert aveva teorizzato e strutturato nella didattica chimica già prima che io nascessi… In un certo senso, è una evoluzione di forme didattiche proprie da sempre dei nostri Istituti Tecnici.
Ma non si può nascondere che ci siano dei problemi, e che comunque (neanche) con questo metodo si facciano miracoli.
Ho la sensazione che, se non ci si confronta con prove quantitative standardizzate, in cui inevitabilmente una tecnica “diversa” (che crea almeno nel primo periodo stimoli ed interesse), può segnare punti a favore delle categorie deboli, ma si segue invece la dinamica della classe in modo più analogico e contestualizzato, le cose siano meno chiare.
Perché usare questo metodo è impegnativo più per lo studente che per l’insegnante, che pure ci si deve applicare parecchio. Richiede costanza. Se praticato come unica strategia, può facilmente mandare in sovraccarico i più motivati, e lasciare freddi e apatici proprio quelli che vorremmo cercare di recuperare. E alla fine portare molti a preferire le lezioni frontali più bieche, ritrite e nozionistiche: perché danno l’impressione di farti arrivare più facilmente e con meno sforzo a quei famosi livelli minimi – altro slogan particolarmente deleterio – grazie ai quali la sfanghi e vai avanti.
Almeno finché varrà la regola che si va a scuola non per imparare di più e meglio, per vedere gratificate – dentro e fuori la scuola – le proprie competenze, ma semplicemente per uscirne il più in fretta possibile con lo stramaledetto pezzo di carta.
Insomma, né questa né nessuna altra ricetta standardizzata, calata dall’alto ed uguale per tutti, mi sembra possa essere ipso facto il sistema vincente. A prescindere dall’ennesimo slogan d’Oltreoceano con cui lo si definisce. Per decidere come insegnare si dovrebbe ripartire ogni volta da cosa e perchè si insegna; e dalle differenze che ci sono tra classe e classe, e tra i diversi studenti di ciascuna. E poi, volta per volta, assumersi la responsabilità di rischiare la strada che può sembrare più efficace: magari, proprio questa.
Leggo la conclusione dell’editoriale di N.J. Pienta sul J. Chem. Ed.
Flipping the classroom sounds easy. Making it work for all of our students is the bigger challenge. Making sure we have the optimal environment for optimal student learning is our duty.
O, per alleggerire il discorso, parafraserei una canzone di moolti anni fa:
Non esistono leggi qui a scuola: basta essere quello che sei.
Lascia aperta la porta del cuore e vedrai che una classe è già in cerca di te…